Per descrivere il contesto che ha caratterizzato gli ultimi vent’anni, alcuni studiosi di geografia, sociologia e scienze politiche hanno sviluppato il concetto di «nuove guerre». Essi ritengono che sia in corso la quarta guerra mondiale (in quanto identificano la Guerra Fredda come la terza guerra mondiale), argomentando che, in seguito al collasso del blocco sovietico, la politica del conflitto e della tensione controllati ha ceduto il passo a una serie di piccole guerre continue e diffuse, caratterizzate da una molteplicità di schieramenti e da esiti incerti. In questo scritto, mi propongo di analizzare in primo luogo il concetto di nuove guerre, poiché esso si rivela un utile strumento d’analisi dei recenti sviluppi in Medio Oriente. Contestualmente evidenzierò come gli elementi soggiacenti alle nuove guerre siano le logiche della biopolitica e della necropolitica e come queste abbiano reso il conflitto uno stato di cose permanente. In secondo luogo, affronterò la questione della Turchia, di come essa stia diventando sempre più un terreno ideale per le nuove guerre e di come i curdi, e le donne in particolare, costituiscano un obiettivo tanto per lo Stato turco quanto per l’isis, entrambi intenzionati a trasformare le loro vite pubbliche e private in spazi di morte e violenza. Parlerò infine del concetto di autodifesa così come è stato formulato dal leader del Movimento di liberazione curdo, Abdullah Öcalan, e poi fatto proprio e arricchito da coloro che lo hanno messo in atto per far fronte ai suddetti attacchi.
In Turchia, l’autogoverno e l’autodifesa sono divenute questioni fortemente dibattute nei circoli dell’opposizione, soprattutto in seguito agli eventi di Gezi Park e all’esperienza del Rojava in Siria. Nel luglio del 2015, dopo la ripresa delle ostilità tra il pkk e Ankara, molte città della Turchia sudorientale, o Kurdistan del Nord, hanno proclamato dei governi autonomi e creato strutture di autodifesa, subendo la feroce reazione dello Stato turco, che ha provocato la morte di oltre cento civili.
Jonas Staal, Anatomy of a Revolution: Rojava, 2015. Courtesy artista e Laveronica arte contemporanea.
Le nuove guerre
Questo concetto si riferisce ai due differenti tipi di conflitto che prendono forma nel mondo contemporaneo. Il primo è esemplificato dall’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq da parte degli Stati Uniti, ma può essere esteso anche all’occupazione israeliana della Palestina e alle politiche turche nel Kurdistan del Nord. Questo genere di guerre, condotte da apparati governativi, prevede il ricorso tanto al soft power quanto all’hard power, ha generalmente il sostegno della popolazione e la sua caratteristica principale è che non cessa finché un obiettivo astratto, come «porre fine al terrorismo», «portare la democrazia» o «garantire la sicurezza», non viene raggiunto. Il secondo tipo di conflitto affonda le radici nelle guerre dell’Europa orientale – in particolare quelle combattute nell’ex Jugoslavia – e nelle guerre civili africane degli anni Novanta. Solitamente, i protagonisti di questi conflitti sono formazioni paramilitari che prosperano in seguito alla perdita di potere dello Stato centrale, causata da una riconfigurazione economica. Con perdita di potere, si intende anche la perdita della capacità di imporre tasse, creare occupazione, distribuire beni e risorse e, soprattutto, fornire una rappresentazione coerente dello Stato come corpus unitario. Sebbene le potenze mondiali e il capitale globale giochino un ruolo fondamentale nel condizionare queste guerre e le azioni di chi le combatte, le alleanze si rivelano quasi sempre temporanee e i nemici mutevoli. Come ha dimostrato la Siria, è difficile fornire un quadro credibile di blocchi stabili e obiettivi fissi. E data la problematicità di desumere dal campo le alleanze capitale-Stato-organizzazione, per formulare le proprie analisi geopolitiche si finisce per riprendere le narrazioni espresse dal campo stesso. Data questa temporaneità delle alleanze e mutevolezza dei nemici, piuttosto che interpretare le nuove guerre alla luce dei vecchi paradigmi meccanicisti, sarebbe più opportuno concepirle nei termini di reti fluide, flessibili e transitorie.
Nel procedere a una classificazione delle nuove guerre, gli studiosi ricorrono ai criteri delle forme e logiche che assumono piuttosto che alle identità degli attori che vi prendono parte. Riprendendo questa loro classificazione, definirò biopolitico il primo tipo di conflitto e necropolitico il secondo, pur se pienamente consapevole che si tratta di una divisione di natura puramente analitica. Prima di argomentare quanto affermato, permettetemi di dire che, sebbene la letteratura tenda ad associare la biopolitica allo Stato e la necropolitica al non-Stato, tanto le organizzazioni statali quanto quelle non-statali esercitano forme dell’una e dell’altra.
Cos’è una guerra biopolitica…
Si possono definire biopolitiche quelle guerre ibride combattute in nome della vita, di un modo di vivere. È anche possibile definirle guerre liberali poiché il loro significato rimanda ai discorsi sulla democrazia, la sicurezza e la pace sviluppati all’interno del paradigma securitario neoliberale elaborato dall’Occidente. In quest’ottica gli Stati Uniti intervengono in nome della democrazia, Israele uccide per questioni di sicurezza e la Turchia dichiara il coprifuoco nelle città curde, assediandole con squadre speciali e tiratori scelti, per difendere la pace sociale.
Autoproclamando il liberalismo e il capitalismo come i soli rappresentanti dell’umanità e dell’etica, queste guerre, che si sono diffuse in tutto il mondo dopo il crollo dell’Unione Sovietica, sono divenute il normale stato delle cose. Esse in genere colpiscono popolazioni considerate diverse e pericolose per l’umanità, ma al contempo implicano sempre l’idea che queste abbiano il potenziale per essere convertite, assimilate e ripulite. Le metafore biologiche quali «trattamento», «operazione», «quarantena», «salubre» e «insalubre» pullulano nel linguaggio delle guerre biopolitiche trasformandole in interventi di tipo medico privi di dimensione politica.
Le principali caratteristiche di questo genere di conflitti sono cinque. La prima, appena segnalata, è che essi mirano a depoliticizzare la guerra (e la sfera pubblica) attribuendole significati teologici e teleologici quali umanitarismo, democrazia, pace, unione e sicurezza.
La seconda è che essi non solo sono permanenti e infiniti ma che i loro fronti tendono a estendersi. Diversamente dalle precedenti guerre, infatti, queste non possono essere concluse da negoziati o trattati, e quelle popolazioni, regioni e città che vengono considerate inassimilabili dal mondo liberale e capitalista, inadatte ai suoi valori, rimangono dei potenziali obiettivi. Inoltre, sebbene le nuove guerre siano combattute principalmente «altrove» (per esempio in Iraq, Siria o Kurdistan), talvolta il loro «virus» può approssimarsi ai confini interni arrivando a minacciare la sicurezza nazionale.
La terza caratteristica consiste nel fatto che, avendo svuotato la guerra della sua dimensione politica, vecchi concetti come morire per la patria non hanno più senso e dunque diventa difficile valorizzare la morte in terre lontane dei soldati che vi prendono parte. Di conseguenza, poiché queste guerre non sono combattute per il territorio, la religione o la nazione, ma per un modo di vivere, per bonificare un territorio, la principale preoccupazione diventa quella di ridurre al minimo i propri costi umani. Di conseguenza, non solo vengono diffuse solo immagini di vittorie, ma al contempo la tecnologia, i corpi speciali, le agenzie di sicurezza e i mercenari rimpiazzano gli eserciti convenzionali.
La quarta caratteristica deriva dal fatto che le nuove guerre avvengono negli spazi urbani, nelle aree abitate. Eliminare gli elementi infetti della popolazione, e conquistare i cuori di coloro che non sono stati ancora infettati dal virus del terrorismo, diventano obiettivi complementari. Nel corso delle guerre biopolitiche, l’assedio, la quarantena e l’isolamento, unitamente a politiche sociali che riconoscono, in maniera selettiva, i diritti ad alcuni e le punizioni ad altri, sono utilizzate come vere e proprie tattiche controinsurrezionali. Anche gli strumenti di violenza sono molteplici e variano dall’utilizzo di gas lacrimogeni agli attacchi con i droni.
La quinta, e ultima, caratteristica di tali guerre è che sono combattute tanto sul campo di battaglia quanto a livello di rappresentazione mediatica e richiedono una produzione attiva di spettatori consenzienti che ritrovino nel conflitto un interesse personale: le persone a casa devono credere che la morte in guerre lontane dei loro compatrioti sia necessaria per il bene comune, per poter mantenere i propri stili di vita e perseguire la ricerca della felicità.
Come detto in precedenza, si tratta di conflitti che non hanno una fine né un nemico determinato, tangibile e definibile. In un contesto come questo, la pace non è altro che la prosecuzione della guerra con altri mezzi e mira a neutralizzare l’opposizione, aprire agli investimenti gli spazi resi inaccessibili dal conflitto, restaurare il potere e le leggi dello Stato e insediare regimi securitari che delegano parte dell’autorità alla polizia e agli apparati burocratici che operano come guardiani del regime. Appare superfluo specificare che si tratta di guerre strettamente collegate allo sviluppo capitalistico: le popolazioni identificate come potenziali obiettivi vengono sfruttate come manodopera a basso costo in tempi di pace, per poi essere buttate fuori con violenza dal mercato del lavoro nel momento in cui diventano superflue. Inoltre, gli investimenti nell’industria bellica ravvivano le economie, andando di pari passo con l’istituzione di aree militarizzate per il controllo delle risorse naturali, con un’accumulazione originaria legittimata dal concorso di soggetti locali e con l’espropriazione degli attori economici percepiti come un ostacolo alla riconfigurazione neoliberale. Infine, lo stato di guerra permanente impedisce alle popolazioni di rivendicare i propri diritti sociali, in modo particolare in caso di tagli alla spesa pubblica.
Jonas Staal, Anatomy of a Revolution: Rojava, 2015. Courtesy artista e Laveronica arte contemporanea.
… e cos’è una guerra necropolitica
L’altra faccia della medaglia delle nuove guerre è rappresentata dalla necropolitica, la cui logica pianificatrice richiede morte, devastazione e depauperamento. In questo caso, la guerra non è combattuta in nome della vita e mira, al contrario, a infliggere ai corpi mutilazioni, lesioni e morte.
Il concetto di necropolitica è divenuto popolare in seguito all’utilizzo che ne ha fatto l’antropologo Achille Mbembe per descrivere la situazione del continente africano all’inizio degli anni Duemila. Oggi però i suoi principali rappresentanti sono la Siria e l’isis che hanno portato queste guerre su un piano del tutto nuovo, approfondendo ulteriormente il legame tra biopolitica e necropolitica. Le guerre necropolitiche sono generalmente associate a organizzazioni non-statali e paramilitari sorte in seguito all’indebolimento degli Stati-nazione a causa della globalizzazione politica ed economica. Esse operano in uno spazio in cui risulta difficile distinguere i confini tra guerra e criminalità. Man mano che gli Stati perdono il controllo delle rotte commerciali, il monopolio della violenza e la capacità di instaurare relazioni costruttive con i propri cittadini, espandendo i diritti civili e creando occupazione, le organizzazioni non-statali, mosse da ideologie piuttosto deboli ma capaci di adottare narrative di vittimizzazione e vendetta molto persuasive, proliferano attorno alle risorse naturali e ai confini permeabili. Inoltre, come dimostrano gli esempi dell’Ucraina, del Medio Oriente e di molti paesi africani e asiatici, esse non sono né temporanee né eccezionali, ma diventano parte dell’ordine bellico globale contemporaneo.
Anche i conflitti necropolitici presentano alcuni tratti distintivi. In primo luogo si tratta di guerre genocide, e spesso suicide, che mirano ad annichilire determinate popolazioni per «liberare» alcune porzioni di territorio da nemici etnici, religiosi o razziali indesiderati, devastandole e razziandole prima, e riterritorializzandole poi. In secondo luogo il tratto che contraddistingue queste organizzazioni non-statali è di operare dilapidando le risorse economiche: insieme agli impulsi suicidi e omicidi, anche lo sperpero muove le loro azioni e i loro desideri. E questo perché l’apocalisse e la libertà sono strettamente intrecciate nella loro concezione di sé e dell’altro, così la trasgressione di ogni norma e le forme di violenza estrema diventano, nelle loro mani, strumenti per farsi largo sul palcoscenico della storia. Questo è vero soprattutto per quei giovani uomini che sono stati tenuti ai margini dell’economia e della politica globali. Le foreste date alle fiamme, i villaggi distrutti, lo spreco di risorse, i corpi femminili violentati o torturati, le fosse comuni sono immagini che documentano da tempo la moderna storia del mondo. Oggi, però, tutto questo non viene occultato nelle stanze segrete degli Stati sovrani, ma diventa una rappresentazione pubblica che è un fine in se stessa e non un mezzo per raggiungere determinati obiettivi.
Anche in questa prospettiva il conflitto si rivela infinito, fino a diventare uno stato delle cose permanente dal quale desumere il significato del proprio agire e il senso dell’onore. Bauman ha affermato che coloro che combattono le guerre necropolitiche si percepiscono come guerrieri e razziatori la cui frontiera è divenuta il mondo intero. Noi vorremmo aggiungere che sono anche mercanti senza scrupoli che fanno profitti sulle risorse naturali e culturali. Lo Stato Islamico, per esempio, vende i reperti sottratti ai siti archeologici, la cui distruzione è stata filmata e trasformata in celebrazione. Tuttavia, un elemento interessante dell’isis è indubbiamente il fatto che, nel momento in cui ha dichiarato la propria «statualità», ha avviato – a favore della popolazione sunnita sotto la sua sovranità territoriale – una serie di programmi volti all’assistenza sociale e sanitaria e alla ricostruzione delle infrastrutture distrutte dalla guerra.
Come le guerre biopolitiche, anche quelle necropolitiche sono combattute a livello di mediatico. Baudrillard ha sostenuto che la televisione è persino riuscita a impedire al pubblico occidentale di vedere la Guerra del Golfo per ciò che era: un’atrocità che mieteva vittime sul campo. Oggi l’isis – una derivazione di Al-Qaida, la cui genealogia storica e visuale affonda le radici proprio in quella guerra – fa ampio uso dei media come tattica di combattimento, diffondendo, e non occultando, le atrocità commesse. Twitter e Facebook – e presumibilmente anche alcuni videogiochi – diventano così strumenti di reclutamento, mentre i combattenti e, ancor più significativamente, le uccisioni e le decapitazioni vengono ripresi, immortalati, documentati e diffusi. In effetti, nel corso delle guerre necropolitiche si verifica un duplice processo di feticizzazione e de-feticizzazione: se gli strumenti della violenza vengono in un certo senso profanati, mettendoli a disposizione di un numero sempre maggiore di persone, la violenza viene trasformata in uno spettacolo, in un feticcio che muove il desiderio e produce significato contribuendo al reclutamento. La necropolitica islamista tende a monopolizzare il «martirio» e i significati sacri e sacrificali attribuiti al combattimento, e quanto più gli Stati combattono in nome del liberalismo, della democrazia e della pace, depoliticizzando, secolarizzando e medicalizzando la guerra, tanto più l’isis e le altre organizzazioni simili rivendicano per sé la religione, la magia, la sacralità e il sacrificio, attribuendo alla loro guerra un significato di trasgressione, di libertà e di spiritualità ultraterrena.
Infine, oltre a produrre la morte e le sue immagini, le guerre necropolitiche generano flussi migratori. Ma i suoi soggetti vengono integrati nell’economia globale su basi negative, in quanto fruitori di assistenza umanitaria, residenti di campi profughi, richiedenti asilo, o merce per il traffico di esseri umani. Attorno ai migranti si sviluppa così, a livello globale, una fiorente economia informale legata alla compravendita dei loro corpi (e talvolta dei loro organi), ora concepiti non più come forza lavoro, ma come materia prima. Nelle nuove economie della guerra e della migrazione forzata, lo sfruttamento capitalistico e lo schiavismo si incontrano di nuovo.
Il ruolo della Turchia
Il governo turco dell’akp, al potere dal 2002, si è distinto dai suoi predecessori perché ha riconosciuto le differenze esistenti all’interno del paese, piuttosto che negarle, e alle retoriche basate sul nazionalismo e lo sviluppo ha preferito un discorso che ha messo l’accento sulla comune fede musulmana, sulla crescita economica e sull’integrazione globale. Esso ha inoltre promesso di risolvere la questione curda che, negli ultimi decenni, era degenerata in una guerra costata più di quarantamila vite. Tuttavia, presto è diventato chiaro che per l’akp «risolvere la questione curda» significava sostituire una guerra nazionalista e sviluppista con un conflitto biopolitico che avrebbe coinvolto un certo numero di gruppi differenti, inclusi i curdi, gli aleviti e le donne. L’akp ha fatto ricorso sia al soft power che all’hard power – interferendo con le attività di questi gruppi in nome della pace, dello sviluppo, della moralità e della sicurezza – e ha utilizzato differenti strumenti, di cui vale la pena riportare alcuni esempi. Se, da una parte, all’interno delle grandi città i quartieri abitati dagli aleviti progressisti sono stati messi sotto stretta sorveglianza dalla polizia e sono stati oggetto di una vasta ristrutturazione urbana e di progetti di gentrificazione, dall’altra le città curde sono state invase da unità speciali e da nuovi presidi di polizia. Oltre a questo, i programmi di assistenza sociale, i trasferimenti monetari condizionati (cct) e l’assicurazione medica gratuita sono stati estesi a quanti sono riusciti a superare il calvario delle verifiche di reddito, mentre i progetti immobiliari sono fioriti ovunque causando una crisi del debito. La conclusione è stata che la società civile si è trovata a essere dominata dalle organizzazioni affiliate all’akp, per le quali ottenere finanziamenti e trovare appoggi si è rivelato molto più semplice che per le associazioni legate al Movimento di liberazione curdo, sottoposte a continui controlli ed emarginate finanziariamente.
Nel 2013, il governo avviava un processo di pace con l’organizzazione armata del pkk che, come oggi sappiamo, mirava a congelare l’opposizione in un perenne stato di attesa e a rendere sicuri gli investimenti in quegli spazi prima inaccessibili a causa della guerra. Questo «processo di pace» puntava a ristabilire la legge dello Stato e a omologare l’identità dei curdi trasformandoli in soggetti musulmani omogenei attraverso le iniziative della società civile. Anche i corpi delle donne sono diventati oggetto di misure ambivalenti: nuove leggi restrittive sull’aborto, santificazione della maternità, revival della morale islamica e leggi del lavoro basate sul genere che incoraggiavano occupazioni part-time, temporanee e flessibili. Nel frattempo, si è registrato un aumento dei femminicidi. Alle donne, inoltre, veniva affidato il compito, attraverso reiterati proclami politici, di educare la gioventù a essere docile e conservatrice (e a tal proposito le donne alevite e curde venivano costantemente accusate di disattendere queste aspettative). È esattamente questa visione che ha poi legittimato quelle leggi anti-terrorismo con cui hanno dovuto fare i conti i giovani che hanno partecipato alle proteste politiche.
Tuttavia, dopo i sommovimenti in atto nel Kurdistan siriano e il risultato elettorale del 7 giugno 2015, che ha visto l’hdp raggiungere il 13% dei voti grazie all’unione di curdi e opposizione di sinistra, il processo di pace collassa e l’akp e lo Stato turco ricorrono nuovamente alle misure forti: viene decretata la legge marziale, si impone il coprifuoco, per intere settimane, alle città curde, si procede all’arresto di alcune personalità politiche e si riprende il massacro dei civili. La presenza di carri armati, squadre speciali, lacrimogeni, tiratori scelti e droni entra a far parte di una quotidianità segnata da una guerra contro i vivi e contro i morti, giustificata dalla necessità di proteggere i civili dall’influenza esercitata dal pkk nei circoli dell’opposizione turca. I siti militari pubblicano su Twitter immagini di guerriglieri morti, di una combattente spogliata e gettata sul ciglio della strada, di un giovane uomo trascinato da un carro armato per le vie della città fino a morire… una sorta di auto-radiografia dello Stato. Sfortunatamente, seppur prevedibilmente, una consistente fetta della popolazione turca continua a giustificare simili atrocità.
Nel frattempo anche la Turchia diventa un palcoscenico per le necropolitiche dell’isis: a Suruç, Diyarbakır e Ankara, un incontro di giornalisti, un comizio elettorale e una dimostrazione per la pace vengono attaccati da attentatori suicidi che provocano la morte di centinaia di persone. Questi attentati mirano principalmente a colpire i curdi, contro i quali lo Stato Islamico sta combattendo nel Rojava. A questo punto sorgono diverse domande: cosa accade a quegli individui, come i curdi, gli aleviti o le donne, che in Turchia costituiscono i principali obiettivi sia delle biopolitiche sia delle necropolitiche? Fino a che punto le leggi nazionali e internazionali possono tutelarli e proteggerli? In che misura i concetti di cittadinanza, di democrazia elettorale o di qualsiasi altra istituzione liberale si rivelano efficaci in una situazione come la loro? Fino a che punto i processi di pace liberali possono risolvere i problemi della sicurezza e della democrazia in un tale contesto?
Le risposte a queste domande sono molto complesse. Le norme applicate nei processi di pace, per esempio, sono elaborate all’interno del paradigma dello Stato-nazione, mentre i curdi sono divisi tra quattro nazioni e in ognuna di queste devono essere difesi dalla violenza dello Stato, e ora anche da quella dell’isis. Viceversa, in una regione in cui la diversità è tale che, nella realtà quotidiana, la categoria «cittadinanza» si rivela inadeguata per rappresentare l’intera popolazione, in cui la stessa categoria «popolazione» non è facilmente applicabile per via di confini e sovranità permeabili, in cui l’immaginario liberale dei diritti umani, a differenza di quanto avviene in Occidente, non è all’opera, si rende necessario immaginare nuovi scenari e nuove istituzioni politiche. Come è possibile, infatti, costruire una pace, una cittadinanza o una democrazia di tipo liberale quando questo richiederebbe delle condizioni sempre meno riscontrabili nella realtà attuale?
Jonas Staal, Anatomy of a Revolution: Rojava, 2015. Courtesy artista e Laveronica arte contemporanea.
Per rispondere a questa domanda e poter far fronte alla loro dispersione in quattro Stati-nazione, i curdi, ispirati dalla rivoluzione in atto nel Rojava, hanno ideato e messo in pratica le istituzioni necessarie per realizzare la propria autodifesa. Vorrei dunque concludere analizzando questo concetto allo scopo di avviare un più ampio dibattito sulla possibilità di difendersi nel bel mezzo di una quarta guerra mondiale le cui radici sono sempre più profonde e i cui fronti si espandono in tutto il mondo.
Il concetto di autodifesa elaborato dai curdi si muove lungo differenti assi: in primo luogo, rimanda alla difesa messa in atto dai curdi in risposta alla violenza dello Stato e al ruolo che in essa vi svolgono le milizie armate; in secondo luogo, riguarda più in generale il modo in cui gli individui oppressi proteggono i loro «mondi vitali» dal potere centrale, dalla devastazione ecologica, dalle relazioni patriarcali e dal capitalismo; in terzo luogo, affronta anche le modalità con cui le società potranno riprodursi pacificamente di fronte alle nuove guerre ibride dei poteri globali, degli Stati, delle organizzazioni genocide e delle multinazionali, ricorrendo a mezzi sia violenti che nonviolenti. L’autodifesa, come nozione opposta a quella di sicurezza, implica la democratizzazione dei mezzi di produzione, di riproduzione e di uso della forza, e di conseguenza l’acquisizione, da parte delle formazioni sociali, di una graduale autonomia tanto nei processi decisionali quanto in quelli di autoproduzione, senza dover dipendere dagli apparati statali. I curdi hanno elaborato una serie di metodi per porre immediatamente in atto una propria difesa autonoma senza attendere un intervento legislativo nazionale o internazionale che fornisse loro un contesto legale. Innanzi tutto, hanno preso ad armarsi nelle città in cui vivono per potersi opporre agli arresti e ai raid della polizia e, successivamente, hanno promosso una serie di accordi e alleanze intessendo relazioni con gli altri gruppi repressi sul territorio turco. Inoltre hanno dato vita a istituzioni volte a sperimentare strumenti di autogoverno nelle sfere decisionale, sanitaria ed educativa. Dal canto loro le donne curde, coscienti che non sono solo il capitalismo e lo Stato-nazione a favorire le odierne ideologie di guerra, ma anche il patriarcato, hanno creato delle proprie istituzioni, strutture e reti parallele.
Come risultato di questi sviluppi, in Kurdistan si sta realizzando una graduale trasformazione di tutti gli ambiti vitali, soprattutto nella concezione degli spazi, dell’etica e del lavoro: i primi vengono ora concepiti come luoghi di resistenza, negoziazione e auto-organizzazione; l’etica va assumendo una nuova conformazione che mette in primo piano la solidarietà, la comunanza, l’amicizia e l’internazionalismo; il lavoro di accudimento e riproduzione di coloro che resistono e trasformano il sistema diviene più importante di quello salariato. Agli occhi dei curdi, sopravvivenza, difesa e autonomia si fondono in un unico insieme che, nel contesto in cui vivono, condivide gli stessi referenti. Ovviamente questi sviluppi pongono nuovi problemi e nuove domande che non saranno affrontate in questa sede.
Per concludere vorrei sottolineare come in Turchia e in tutto il Medio Oriente, tanto le donne quanto chiunque scelga di fare opposizione avranno di fronte a sé tempi difficili. Da quanto ho avuto modo di leggere e ascoltare, mi pare che sia una situazione diffusa nei più vari contesti: sono molti i gruppi, le comunità e le identità che stanno tentando di scendere a patti con queste guerre permanenti che plasmano i nostri «mondi vitali». Per capire come difendere noi stessi e la società urge, oggi più che mai, avviare un dibattito quanto mai ampio basato sulle nostre differenti esperienze e risposte. Spero, dunque, che questo contributo possa costituire un primo passo nella direzione auspicata.
Nazan Üstündağ è docente di sociologia all’Università Boğaziçi di Istanbul, dove si occupa in particolare di teoria femminista e di etnografia dello Stato, fa parte del Women for Peace and Academics for peace. Nel marzo 2015 si è recata a Kobane con Michael Taussing.
*Il capitolo “Nuove guerre e autodifesa in Kurdistan”, è tratto dalla pubblicazione Una democrazia senza stato a cura di Dilar Dirik, David Levi Strauss, Michael Taussig, Peter Lamborn Wilson, appena pubblicato da Elèuthera (ottobre 2017).
Con contributi di: Murat Bay (reporter turco), Janet Biehl (ecofemminista americana), Dilar Dirik (attivista e femminista curda), El Errante/Paul Z. Simons (giornalista e attivista americano), David Graeber (antropologo americano), Havin Güneşer (giornalista e attivista curda), Evren Kocabiçek (giornalista turca), David Levi Strauss (critico d’arte americano), Salih Muslim Mohamed (politico curdo-siriano), Pinar Öğünç (giornalista turca), Jonas Staal (artista olandese), Michael Taussig (antropologo australiano), Newsha Tavakolian (fotoreporter iraniana), Nazan Üstündağ (sociologa turca), Bill Weinberg (giornalista e blogger americano), Peter Lamborn Wilson (scrittore e attivista americano).
Per descrivere il contesto che ha caratterizzato gli ultimi vent’anni, alcuni studiosi di geografia, sociologia e scienze politiche hanno sviluppato il concetto di «nuove guerre». Essi ritengono che sia in corso la quarta guerra mondiale (in quanto identificano la Guerra Fredda come la terza guerra mondiale), argomentando che, in seguito al collasso del blocco sovietico, la politica del conflitto e della tensione controllati ha ceduto il passo a una serie di piccole guerre continue e diffuse, caratterizzate da una molteplicità di schieramenti e da esiti incerti. In questo scritto, mi propongo di analizzare in primo luogo il concetto di nuove guerre, poiché esso si rivela un utile strumento d’analisi dei recenti sviluppi in Medio Oriente. Contestualmente evidenzierò come gli elementi soggiacenti alle nuove guerre siano le logiche della biopolitica e della necropolitica e come queste abbiano reso il conflitto uno stato di cose permanente. In secondo luogo, affronterò la questione della Turchia, di come essa stia diventando sempre più un terreno ideale per le nuove guerre e di come i curdi, e le donne in particolare, costituiscano un obiettivo tanto per lo Stato turco quanto per l’isis, entrambi intenzionati a trasformare le loro vite pubbliche e private in spazi di morte e violenza. Parlerò infine del concetto di autodifesa così come è stato formulato dal leader del Movimento di liberazione curdo, Abdullah Öcalan, e poi fatto proprio e arricchito da coloro che lo hanno messo in atto per far fronte ai suddetti attacchi.
In Turchia, l’autogoverno e l’autodifesa sono divenute questioni fortemente dibattute nei circoli dell’opposizione, soprattutto in seguito agli eventi di Gezi Park e all’esperienza del Rojava in Siria. Nel luglio del 2015, dopo la ripresa delle ostilità tra il pkk e Ankara, molte città della Turchia sudorientale, o Kurdistan del Nord, hanno proclamato dei governi autonomi e creato strutture di autodifesa, subendo la feroce reazione dello Stato turco, che ha provocato la morte di oltre cento civili.
Jonas Staal, Anatomy of a Revolution: Rojava, 2015. Courtesy artista e Laveronica arte contemporanea.
Le nuove guerre
Questo concetto si riferisce ai due differenti tipi di conflitto che prendono forma nel mondo contemporaneo. Il primo è esemplificato dall’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq da parte degli Stati Uniti, ma può essere esteso anche all’occupazione israeliana della Palestina e alle politiche turche nel Kurdistan del Nord. Questo genere di guerre, condotte da apparati governativi, prevede il ricorso tanto al soft power quanto all’hard power, ha generalmente il sostegno della popolazione e la sua caratteristica principale è che non cessa finché un obiettivo astratto, come «porre fine al terrorismo», «portare la democrazia» o «garantire la sicurezza», non viene raggiunto. Il secondo tipo di conflitto affonda le radici nelle guerre dell’Europa orientale – in particolare quelle combattute nell’ex Jugoslavia – e nelle guerre civili africane degli anni Novanta. Solitamente, i protagonisti di questi conflitti sono formazioni paramilitari che prosperano in seguito alla perdita di potere dello Stato centrale, causata da una riconfigurazione economica. Con perdita di potere, si intende anche la perdita della capacità di imporre tasse, creare occupazione, distribuire beni e risorse e, soprattutto, fornire una rappresentazione coerente dello Stato come corpus unitario. Sebbene le potenze mondiali e il capitale globale giochino un ruolo fondamentale nel condizionare queste guerre e le azioni di chi le combatte, le alleanze si rivelano quasi sempre temporanee e i nemici mutevoli. Come ha dimostrato la Siria, è difficile fornire un quadro credibile di blocchi stabili e obiettivi fissi. E data la problematicità di desumere dal campo le alleanze capitale-Stato-organizzazione, per formulare le proprie analisi geopolitiche si finisce per riprendere le narrazioni espresse dal campo stesso. Data questa temporaneità delle alleanze e mutevolezza dei nemici, piuttosto che interpretare le nuove guerre alla luce dei vecchi paradigmi meccanicisti, sarebbe più opportuno concepirle nei termini di reti fluide, flessibili e transitorie.
Nel procedere a una classificazione delle nuove guerre, gli studiosi ricorrono ai criteri delle forme e logiche che assumono piuttosto che alle identità degli attori che vi prendono parte. Riprendendo questa loro classificazione, definirò biopolitico il primo tipo di conflitto e necropolitico il secondo, pur se pienamente consapevole che si tratta di una divisione di natura puramente analitica. Prima di argomentare quanto affermato, permettetemi di dire che, sebbene la letteratura tenda ad associare la biopolitica allo Stato e la necropolitica al non-Stato, tanto le organizzazioni statali quanto quelle non-statali esercitano forme dell’una e dell’altra.
Cos’è una guerra biopolitica…
Si possono definire biopolitiche quelle guerre ibride combattute in nome della vita, di un modo di vivere. È anche possibile definirle guerre liberali poiché il loro significato rimanda ai discorsi sulla democrazia, la sicurezza e la pace sviluppati all’interno del paradigma securitario neoliberale elaborato dall’Occidente. In quest’ottica gli Stati Uniti intervengono in nome della democrazia, Israele uccide per questioni di sicurezza e la Turchia dichiara il coprifuoco nelle città curde, assediandole con squadre speciali e tiratori scelti, per difendere la pace sociale.
Autoproclamando il liberalismo e il capitalismo come i soli rappresentanti dell’umanità e dell’etica, queste guerre, che si sono diffuse in tutto il mondo dopo il crollo dell’Unione Sovietica, sono divenute il normale stato delle cose. Esse in genere colpiscono popolazioni considerate diverse e pericolose per l’umanità, ma al contempo implicano sempre l’idea che queste abbiano il potenziale per essere convertite, assimilate e ripulite. Le metafore biologiche quali «trattamento», «operazione», «quarantena», «salubre» e «insalubre» pullulano nel linguaggio delle guerre biopolitiche trasformandole in interventi di tipo medico privi di dimensione politica.
Le principali caratteristiche di questo genere di conflitti sono cinque. La prima, appena segnalata, è che essi mirano a depoliticizzare la guerra (e la sfera pubblica) attribuendole significati teologici e teleologici quali umanitarismo, democrazia, pace, unione e sicurezza.
La seconda è che essi non solo sono permanenti e infiniti ma che i loro fronti tendono a estendersi. Diversamente dalle precedenti guerre, infatti, queste non possono essere concluse da negoziati o trattati, e quelle popolazioni, regioni e città che vengono considerate inassimilabili dal mondo liberale e capitalista, inadatte ai suoi valori, rimangono dei potenziali obiettivi. Inoltre, sebbene le nuove guerre siano combattute principalmente «altrove» (per esempio in Iraq, Siria o Kurdistan), talvolta il loro «virus» può approssimarsi ai confini interni arrivando a minacciare la sicurezza nazionale.
La terza caratteristica consiste nel fatto che, avendo svuotato la guerra della sua dimensione politica, vecchi concetti come morire per la patria non hanno più senso e dunque diventa difficile valorizzare la morte in terre lontane dei soldati che vi prendono parte. Di conseguenza, poiché queste guerre non sono combattute per il territorio, la religione o la nazione, ma per un modo di vivere, per bonificare un territorio, la principale preoccupazione diventa quella di ridurre al minimo i propri costi umani. Di conseguenza, non solo vengono diffuse solo immagini di vittorie, ma al contempo la tecnologia, i corpi speciali, le agenzie di sicurezza e i mercenari rimpiazzano gli eserciti convenzionali.
La quarta caratteristica deriva dal fatto che le nuove guerre avvengono negli spazi urbani, nelle aree abitate. Eliminare gli elementi infetti della popolazione, e conquistare i cuori di coloro che non sono stati ancora infettati dal virus del terrorismo, diventano obiettivi complementari. Nel corso delle guerre biopolitiche, l’assedio, la quarantena e l’isolamento, unitamente a politiche sociali che riconoscono, in maniera selettiva, i diritti ad alcuni e le punizioni ad altri, sono utilizzate come vere e proprie tattiche controinsurrezionali. Anche gli strumenti di violenza sono molteplici e variano dall’utilizzo di gas lacrimogeni agli attacchi con i droni.
La quinta, e ultima, caratteristica di tali guerre è che sono combattute tanto sul campo di battaglia quanto a livello di rappresentazione mediatica e richiedono una produzione attiva di spettatori consenzienti che ritrovino nel conflitto un interesse personale: le persone a casa devono credere che la morte in guerre lontane dei loro compatrioti sia necessaria per il bene comune, per poter mantenere i propri stili di vita e perseguire la ricerca della felicità.
Come detto in precedenza, si tratta di conflitti che non hanno una fine né un nemico determinato, tangibile e definibile. In un contesto come questo, la pace non è altro che la prosecuzione della guerra con altri mezzi e mira a neutralizzare l’opposizione, aprire agli investimenti gli spazi resi inaccessibili dal conflitto, restaurare il potere e le leggi dello Stato e insediare regimi securitari che delegano parte dell’autorità alla polizia e agli apparati burocratici che operano come guardiani del regime. Appare superfluo specificare che si tratta di guerre strettamente collegate allo sviluppo capitalistico: le popolazioni identificate come potenziali obiettivi vengono sfruttate come manodopera a basso costo in tempi di pace, per poi essere buttate fuori con violenza dal mercato del lavoro nel momento in cui diventano superflue. Inoltre, gli investimenti nell’industria bellica ravvivano le economie, andando di pari passo con l’istituzione di aree militarizzate per il controllo delle risorse naturali, con un’accumulazione originaria legittimata dal concorso di soggetti locali e con l’espropriazione degli attori economici percepiti come un ostacolo alla riconfigurazione neoliberale. Infine, lo stato di guerra permanente impedisce alle popolazioni di rivendicare i propri diritti sociali, in modo particolare in caso di tagli alla spesa pubblica.
Jonas Staal, Anatomy of a Revolution: Rojava, 2015. Courtesy artista e Laveronica arte contemporanea.
… e cos’è una guerra necropolitica
L’altra faccia della medaglia delle nuove guerre è rappresentata dalla necropolitica, la cui logica pianificatrice richiede morte, devastazione e depauperamento. In questo caso, la guerra non è combattuta in nome della vita e mira, al contrario, a infliggere ai corpi mutilazioni, lesioni e morte.
Il concetto di necropolitica è divenuto popolare in seguito all’utilizzo che ne ha fatto l’antropologo Achille Mbembe per descrivere la situazione del continente africano all’inizio degli anni Duemila. Oggi però i suoi principali rappresentanti sono la Siria e l’isis che hanno portato queste guerre su un piano del tutto nuovo, approfondendo ulteriormente il legame tra biopolitica e necropolitica. Le guerre necropolitiche sono generalmente associate a organizzazioni non-statali e paramilitari sorte in seguito all’indebolimento degli Stati-nazione a causa della globalizzazione politica ed economica. Esse operano in uno spazio in cui risulta difficile distinguere i confini tra guerra e criminalità. Man mano che gli Stati perdono il controllo delle rotte commerciali, il monopolio della violenza e la capacità di instaurare relazioni costruttive con i propri cittadini, espandendo i diritti civili e creando occupazione, le organizzazioni non-statali, mosse da ideologie piuttosto deboli ma capaci di adottare narrative di vittimizzazione e vendetta molto persuasive, proliferano attorno alle risorse naturali e ai confini permeabili. Inoltre, come dimostrano gli esempi dell’Ucraina, del Medio Oriente e di molti paesi africani e asiatici, esse non sono né temporanee né eccezionali, ma diventano parte dell’ordine bellico globale contemporaneo.
Anche i conflitti necropolitici presentano alcuni tratti distintivi. In primo luogo si tratta di guerre genocide, e spesso suicide, che mirano ad annichilire determinate popolazioni per «liberare» alcune porzioni di territorio da nemici etnici, religiosi o razziali indesiderati, devastandole e razziandole prima, e riterritorializzandole poi. In secondo luogo il tratto che contraddistingue queste organizzazioni non-statali è di operare dilapidando le risorse economiche: insieme agli impulsi suicidi e omicidi, anche lo sperpero muove le loro azioni e i loro desideri. E questo perché l’apocalisse e la libertà sono strettamente intrecciate nella loro concezione di sé e dell’altro, così la trasgressione di ogni norma e le forme di violenza estrema diventano, nelle loro mani, strumenti per farsi largo sul palcoscenico della storia. Questo è vero soprattutto per quei giovani uomini che sono stati tenuti ai margini dell’economia e della politica globali. Le foreste date alle fiamme, i villaggi distrutti, lo spreco di risorse, i corpi femminili violentati o torturati, le fosse comuni sono immagini che documentano da tempo la moderna storia del mondo. Oggi, però, tutto questo non viene occultato nelle stanze segrete degli Stati sovrani, ma diventa una rappresentazione pubblica che è un fine in se stessa e non un mezzo per raggiungere determinati obiettivi.
Anche in questa prospettiva il conflitto si rivela infinito, fino a diventare uno stato delle cose permanente dal quale desumere il significato del proprio agire e il senso dell’onore. Bauman ha affermato che coloro che combattono le guerre necropolitiche si percepiscono come guerrieri e razziatori la cui frontiera è divenuta il mondo intero. Noi vorremmo aggiungere che sono anche mercanti senza scrupoli che fanno profitti sulle risorse naturali e culturali. Lo Stato Islamico, per esempio, vende i reperti sottratti ai siti archeologici, la cui distruzione è stata filmata e trasformata in celebrazione. Tuttavia, un elemento interessante dell’isis è indubbiamente il fatto che, nel momento in cui ha dichiarato la propria «statualità», ha avviato – a favore della popolazione sunnita sotto la sua sovranità territoriale – una serie di programmi volti all’assistenza sociale e sanitaria e alla ricostruzione delle infrastrutture distrutte dalla guerra.
Come le guerre biopolitiche, anche quelle necropolitiche sono combattute a livello di mediatico. Baudrillard ha sostenuto che la televisione è persino riuscita a impedire al pubblico occidentale di vedere la Guerra del Golfo per ciò che era: un’atrocità che mieteva vittime sul campo. Oggi l’isis – una derivazione di Al-Qaida, la cui genealogia storica e visuale affonda le radici proprio in quella guerra – fa ampio uso dei media come tattica di combattimento, diffondendo, e non occultando, le atrocità commesse. Twitter e Facebook – e presumibilmente anche alcuni videogiochi – diventano così strumenti di reclutamento, mentre i combattenti e, ancor più significativamente, le uccisioni e le decapitazioni vengono ripresi, immortalati, documentati e diffusi. In effetti, nel corso delle guerre necropolitiche si verifica un duplice processo di feticizzazione e de-feticizzazione: se gli strumenti della violenza vengono in un certo senso profanati, mettendoli a disposizione di un numero sempre maggiore di persone, la violenza viene trasformata in uno spettacolo, in un feticcio che muove il desiderio e produce significato contribuendo al reclutamento. La necropolitica islamista tende a monopolizzare il «martirio» e i significati sacri e sacrificali attribuiti al combattimento, e quanto più gli Stati combattono in nome del liberalismo, della democrazia e della pace, depoliticizzando, secolarizzando e medicalizzando la guerra, tanto più l’isis e le altre organizzazioni simili rivendicano per sé la religione, la magia, la sacralità e il sacrificio, attribuendo alla loro guerra un significato di trasgressione, di libertà e di spiritualità ultraterrena.
Infine, oltre a produrre la morte e le sue immagini, le guerre necropolitiche generano flussi migratori. Ma i suoi soggetti vengono integrati nell’economia globale su basi negative, in quanto fruitori di assistenza umanitaria, residenti di campi profughi, richiedenti asilo, o merce per il traffico di esseri umani. Attorno ai migranti si sviluppa così, a livello globale, una fiorente economia informale legata alla compravendita dei loro corpi (e talvolta dei loro organi), ora concepiti non più come forza lavoro, ma come materia prima. Nelle nuove economie della guerra e della migrazione forzata, lo sfruttamento capitalistico e lo schiavismo si incontrano di nuovo.
Il ruolo della Turchia
Il governo turco dell’akp, al potere dal 2002, si è distinto dai suoi predecessori perché ha riconosciuto le differenze esistenti all’interno del paese, piuttosto che negarle, e alle retoriche basate sul nazionalismo e lo sviluppo ha preferito un discorso che ha messo l’accento sulla comune fede musulmana, sulla crescita economica e sull’integrazione globale. Esso ha inoltre promesso di risolvere la questione curda che, negli ultimi decenni, era degenerata in una guerra costata più di quarantamila vite. Tuttavia, presto è diventato chiaro che per l’akp «risolvere la questione curda» significava sostituire una guerra nazionalista e sviluppista con un conflitto biopolitico che avrebbe coinvolto un certo numero di gruppi differenti, inclusi i curdi, gli aleviti e le donne. L’akp ha fatto ricorso sia al soft power che all’hard power – interferendo con le attività di questi gruppi in nome della pace, dello sviluppo, della moralità e della sicurezza – e ha utilizzato differenti strumenti, di cui vale la pena riportare alcuni esempi. Se, da una parte, all’interno delle grandi città i quartieri abitati dagli aleviti progressisti sono stati messi sotto stretta sorveglianza dalla polizia e sono stati oggetto di una vasta ristrutturazione urbana e di progetti di gentrificazione, dall’altra le città curde sono state invase da unità speciali e da nuovi presidi di polizia. Oltre a questo, i programmi di assistenza sociale, i trasferimenti monetari condizionati (cct) e l’assicurazione medica gratuita sono stati estesi a quanti sono riusciti a superare il calvario delle verifiche di reddito, mentre i progetti immobiliari sono fioriti ovunque causando una crisi del debito. La conclusione è stata che la società civile si è trovata a essere dominata dalle organizzazioni affiliate all’akp, per le quali ottenere finanziamenti e trovare appoggi si è rivelato molto più semplice che per le associazioni legate al Movimento di liberazione curdo, sottoposte a continui controlli ed emarginate finanziariamente.
Nel 2013, il governo avviava un processo di pace con l’organizzazione armata del pkk che, come oggi sappiamo, mirava a congelare l’opposizione in un perenne stato di attesa e a rendere sicuri gli investimenti in quegli spazi prima inaccessibili a causa della guerra. Questo «processo di pace» puntava a ristabilire la legge dello Stato e a omologare l’identità dei curdi trasformandoli in soggetti musulmani omogenei attraverso le iniziative della società civile. Anche i corpi delle donne sono diventati oggetto di misure ambivalenti: nuove leggi restrittive sull’aborto, santificazione della maternità, revival della morale islamica e leggi del lavoro basate sul genere che incoraggiavano occupazioni part-time, temporanee e flessibili. Nel frattempo, si è registrato un aumento dei femminicidi. Alle donne, inoltre, veniva affidato il compito, attraverso reiterati proclami politici, di educare la gioventù a essere docile e conservatrice (e a tal proposito le donne alevite e curde venivano costantemente accusate di disattendere queste aspettative). È esattamente questa visione che ha poi legittimato quelle leggi anti-terrorismo con cui hanno dovuto fare i conti i giovani che hanno partecipato alle proteste politiche.
Tuttavia, dopo i sommovimenti in atto nel Kurdistan siriano e il risultato elettorale del 7 giugno 2015, che ha visto l’hdp raggiungere il 13% dei voti grazie all’unione di curdi e opposizione di sinistra, il processo di pace collassa e l’akp e lo Stato turco ricorrono nuovamente alle misure forti: viene decretata la legge marziale, si impone il coprifuoco, per intere settimane, alle città curde, si procede all’arresto di alcune personalità politiche e si riprende il massacro dei civili. La presenza di carri armati, squadre speciali, lacrimogeni, tiratori scelti e droni entra a far parte di una quotidianità segnata da una guerra contro i vivi e contro i morti, giustificata dalla necessità di proteggere i civili dall’influenza esercitata dal pkk nei circoli dell’opposizione turca. I siti militari pubblicano su Twitter immagini di guerriglieri morti, di una combattente spogliata e gettata sul ciglio della strada, di un giovane uomo trascinato da un carro armato per le vie della città fino a morire… una sorta di auto-radiografia dello Stato. Sfortunatamente, seppur prevedibilmente, una consistente fetta della popolazione turca continua a giustificare simili atrocità.
Nel frattempo anche la Turchia diventa un palcoscenico per le necropolitiche dell’isis: a Suruç, Diyarbakır e Ankara, un incontro di giornalisti, un comizio elettorale e una dimostrazione per la pace vengono attaccati da attentatori suicidi che provocano la morte di centinaia di persone. Questi attentati mirano principalmente a colpire i curdi, contro i quali lo Stato Islamico sta combattendo nel Rojava. A questo punto sorgono diverse domande: cosa accade a quegli individui, come i curdi, gli aleviti o le donne, che in Turchia costituiscono i principali obiettivi sia delle biopolitiche sia delle necropolitiche? Fino a che punto le leggi nazionali e internazionali possono tutelarli e proteggerli? In che misura i concetti di cittadinanza, di democrazia elettorale o di qualsiasi altra istituzione liberale si rivelano efficaci in una situazione come la loro? Fino a che punto i processi di pace liberali possono risolvere i problemi della sicurezza e della democrazia in un tale contesto?
Le risposte a queste domande sono molto complesse. Le norme applicate nei processi di pace, per esempio, sono elaborate all’interno del paradigma dello Stato-nazione, mentre i curdi sono divisi tra quattro nazioni e in ognuna di queste devono essere difesi dalla violenza dello Stato, e ora anche da quella dell’isis. Viceversa, in una regione in cui la diversità è tale che, nella realtà quotidiana, la categoria «cittadinanza» si rivela inadeguata per rappresentare l’intera popolazione, in cui la stessa categoria «popolazione» non è facilmente applicabile per via di confini e sovranità permeabili, in cui l’immaginario liberale dei diritti umani, a differenza di quanto avviene in Occidente, non è all’opera, si rende necessario immaginare nuovi scenari e nuove istituzioni politiche. Come è possibile, infatti, costruire una pace, una cittadinanza o una democrazia di tipo liberale quando questo richiederebbe delle condizioni sempre meno riscontrabili nella realtà attuale?
Jonas Staal, Anatomy of a Revolution: Rojava, 2015. Courtesy artista e Laveronica arte contemporanea.
Per rispondere a questa domanda e poter far fronte alla loro dispersione in quattro Stati-nazione, i curdi, ispirati dalla rivoluzione in atto nel Rojava, hanno ideato e messo in pratica le istituzioni necessarie per realizzare la propria autodifesa. Vorrei dunque concludere analizzando questo concetto allo scopo di avviare un più ampio dibattito sulla possibilità di difendersi nel bel mezzo di una quarta guerra mondiale le cui radici sono sempre più profonde e i cui fronti si espandono in tutto il mondo.
Il concetto di autodifesa elaborato dai curdi si muove lungo differenti assi: in primo luogo, rimanda alla difesa messa in atto dai curdi in risposta alla violenza dello Stato e al ruolo che in essa vi svolgono le milizie armate; in secondo luogo, riguarda più in generale il modo in cui gli individui oppressi proteggono i loro «mondi vitali» dal potere centrale, dalla devastazione ecologica, dalle relazioni patriarcali e dal capitalismo; in terzo luogo, affronta anche le modalità con cui le società potranno riprodursi pacificamente di fronte alle nuove guerre ibride dei poteri globali, degli Stati, delle organizzazioni genocide e delle multinazionali, ricorrendo a mezzi sia violenti che nonviolenti. L’autodifesa, come nozione opposta a quella di sicurezza, implica la democratizzazione dei mezzi di produzione, di riproduzione e di uso della forza, e di conseguenza l’acquisizione, da parte delle formazioni sociali, di una graduale autonomia tanto nei processi decisionali quanto in quelli di autoproduzione, senza dover dipendere dagli apparati statali. I curdi hanno elaborato una serie di metodi per porre immediatamente in atto una propria difesa autonoma senza attendere un intervento legislativo nazionale o internazionale che fornisse loro un contesto legale. Innanzi tutto, hanno preso ad armarsi nelle città in cui vivono per potersi opporre agli arresti e ai raid della polizia e, successivamente, hanno promosso una serie di accordi e alleanze intessendo relazioni con gli altri gruppi repressi sul territorio turco. Inoltre hanno dato vita a istituzioni volte a sperimentare strumenti di autogoverno nelle sfere decisionale, sanitaria ed educativa. Dal canto loro le donne curde, coscienti che non sono solo il capitalismo e lo Stato-nazione a favorire le odierne ideologie di guerra, ma anche il patriarcato, hanno creato delle proprie istituzioni, strutture e reti parallele.
Come risultato di questi sviluppi, in Kurdistan si sta realizzando una graduale trasformazione di tutti gli ambiti vitali, soprattutto nella concezione degli spazi, dell’etica e del lavoro: i primi vengono ora concepiti come luoghi di resistenza, negoziazione e auto-organizzazione; l’etica va assumendo una nuova conformazione che mette in primo piano la solidarietà, la comunanza, l’amicizia e l’internazionalismo; il lavoro di accudimento e riproduzione di coloro che resistono e trasformano il sistema diviene più importante di quello salariato. Agli occhi dei curdi, sopravvivenza, difesa e autonomia si fondono in un unico insieme che, nel contesto in cui vivono, condivide gli stessi referenti. Ovviamente questi sviluppi pongono nuovi problemi e nuove domande che non saranno affrontate in questa sede.
Per concludere vorrei sottolineare come in Turchia e in tutto il Medio Oriente, tanto le donne quanto chiunque scelga di fare opposizione avranno di fronte a sé tempi difficili. Da quanto ho avuto modo di leggere e ascoltare, mi pare che sia una situazione diffusa nei più vari contesti: sono molti i gruppi, le comunità e le identità che stanno tentando di scendere a patti con queste guerre permanenti che plasmano i nostri «mondi vitali». Per capire come difendere noi stessi e la società urge, oggi più che mai, avviare un dibattito quanto mai ampio basato sulle nostre differenti esperienze e risposte. Spero, dunque, che questo contributo possa costituire un primo passo nella direzione auspicata.
Nazan Üstündağ è docente di sociologia all’Università Boğaziçi di Istanbul, dove si occupa in particolare di teoria femminista e di etnografia dello Stato, fa parte del Women for Peace and Academics for peace. Nel marzo 2015 si è recata a Kobane con Michael Taussing.
*Il capitolo “Nuove guerre e autodifesa in Kurdistan”, è tratto dalla pubblicazione Una democrazia senza stato a cura di Dilar Dirik, David Levi Strauss, Michael Taussig, Peter Lamborn Wilson, appena pubblicato da Elèuthera (ottobre 2017).
Con contributi di: Murat Bay (reporter turco), Janet Biehl (ecofemminista americana), Dilar Dirik (attivista e femminista curda), El Errante/Paul Z. Simons (giornalista e attivista americano), David Graeber (antropologo americano), Havin Güneşer (giornalista e attivista curda), Evren Kocabiçek (giornalista turca), David Levi Strauss (critico d’arte americano), Salih Muslim Mohamed (politico curdo-siriano), Pinar Öğünç (giornalista turca), Jonas Staal (artista olandese), Michael Taussig (antropologo australiano), Newsha Tavakolian (fotoreporter iraniana), Nazan Üstündağ (sociologa turca), Bill Weinberg (giornalista e blogger americano), Peter Lamborn Wilson (scrittore e attivista americano).
Ringraziamo l’editore per la gentile concessione.